domenica 27 luglio 2014

Pedro Sánchez presenta il suo PSOE: lotta a disuguaglianze, corruzione ed evasione fiscale

Ha 42 anni, giovane come lo erano Felipe González e José Luis Rodriguez Zapatero, i due uomini che hanno cambiato il PSOE e la Spagna, quando sono stati eletti Segretari Generali del Partito Socialista. E' bello, che nella società dell'immagine non guasta, come non è più stato un leader socialista, dai tempi di Felipe González. E' alto, 1,90, come nessun altro prima di lui e, secondo il francese Le Monde, ha una faccia da Cary Grant latino ed è il Matteo Renzi di Spagna.

Si chiama Pedro Sánchez ed è il nuovo Segretario Generale del PSOE, eletto nelle primarie riservate agli iscritti al Partito, il 13 luglio, con il 49% dei voti e investito dal Congresso con una di quelle maggioranze più preoccupanti che entusiasmanti: l'86% dei delegati ha votato il suo Esecutivo.

Fino a qualche settimana fa, Sánchez era sconosciuto alla maggioranza degli spagnoli. Poi Alfredo Pérez Rubalcaba ha annunciato il suo ritiro dalla scena politica e ha convocato un Congresso straordinario per questo weekend di fine luglio. Il PSOE ha iniziato a guardarsi intorno e tra vecchi e giovani favoriti e sbucato lui, Pedro Sánchez da Madrid. La sua prima mossa, già Segretario Generale in pectore, è stata il voto contrario del PSOE all'elezione del conservatore lussemburghese Jean Claude Juncker alla Presidenza della Commissione Europea. Irresponsabile! lo ha tacciato immediatamente El País, che continua a essere quotidiano di sinistra. E lui, senza scomporsi, ha commentato: "Che provino a spiegare ai militanti di base un nostro sì a Juncker". E sì, perché Juncker è stato l'uomo dell'austerità, durante i suoi anni di presidenza dell'Eurogruppo, fedele esecutore dei comandi di Berlino e Francoforte, salvo riscoprire, in scadenza di mandato, i valori di solidarietà e di dignità delle sue origini cristiano-sociali. Difficile puntare su di lui, se si crede davvero nel nuovo e in una politica europea più solidale, più attenta agli ultimi, più lontana dall'austerità.

Pedro Sánchez nasce come economista e l'Economia è stata la sua principale preoccupazione nel discorso di chiusura del Congresso. Così ha promesso che la sua Spagna abbandonerà le politiche economiche del PP, perché "è già sufficiente, non devono essere solo classe media e classe lavoratrice a sopportare la crisi". Lui intende iniziare una"“transizione economica per recuperare lo Stato Sociale". Le sue prime proposte non distano tanto da quelle di Podemos, la formazione politica nata dalla galassia degli indignados, che ha ottenuto il terzo posto alle elezioni politiche europee del 25 maggio, sorrpendendo e spaventando l'establishment. Gli indignados e i desencantados sono gli elettori che Sánchez vuole (ri)avvicinare al PSOE. Per questo ha parlato di lotta alla corruzione e all'evasione fiscale, ha denunciato chi "quando deve scegliere tra patria e patrimonio sceglie il paradiso fiscale" (il riferimento neanche tanto velato era a Jordi Pujol, ex leader nazionalista catalano, che ha ammesso l'esistenza dei suoi conti all'estero). Ha assicurato una nuova riforma fiscale, per equiparare le rendite da capitale a quelle da lavoro, e l'abrogazione delle leggi approvate dal PP su lavoro, scuola e aborto. Ha promesso una riforma costituzionale per trasformare la Spagna in un Paese federale, in grado di garantire l'unione tra i popoli spagnoli (ricorda un po' il discorso di insediamento di Re Felipe: in una Spagna aperta e plurale c'è posto per tutti). Il suo obiettivo è sradicare dalla Spagna disoccupazione, violenza di genere e indipendentismo e per questo ha chiesto la collaborazione di tutti i militanti.

Non ha chiarito se ci saranno le primarie per scegliere il candidato socialista alla Moncloa e il pericolo che non ci siano è evidente: perché un leader giovane, arrivato con una tale carica di promesse e di cambio, con un sostegno così solido del suo partito, dovrebbe fare le primarie e scegliere un altro candidato per la Presidenza del Governo, avendo lui stesso simili consensi? Sul palco con lui, dopo il suo discorso, sono saliti tutti i leaders che lo hanno preceduto: Felipe González, Joaquín Almunia, José Luis Rodriguez Zapatero, Alfredo Pérez Rubalcaba. Guardarli era vedere la storia contemporanea della Spagna, con i suoi successi e i suoi fallimenti, con i sogni e le speranze sempre pronti a rinascere. Sánchez rappresenta una nuova generazione, come Matteo Renzi, a cui un po' tutti lo paragonano. Anche lui potrà dire di non c'entrare niente con gli errori del passato, anche lui potrà difendere con orgoglio i valori socialisti e proporli per i nuovi tempi che aspettano la Spagna.

Difficile dire adesso se lo sconosciuto Pedro Sánchez è il leader di cui hanno bisogno la Spagna e il PSOE. Ma viene da pensare che in un solo mese il Paese ha cambiato il Capo dello Stato e il leader del principale partito d'opposizione, affidandosi in entrambi i casi alla generazione dei 40enni, che nulla deve alla Transición, che è cresciuta nella democrazia e in Europa. Sono due cambi che suscitano aspettative e speranze, prudenti, ma non disincantate. Tocca a Felipe e a Sánchez non deluderle, ma la sensazione è che la Spagna stia tornando a essere il Paese in cui si vuole vivere non solo per temporadas, ma, se possibile, un'intera vita.